23 febbraio 2011

ESSERE O NON ESSERE?


Ma c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pura in furia, era andato a letto.”

Calata la notte, irrompe nell'animo del Signore angoscia e tormento...
È un uomo che lotta con se stesso, poiché una conversione non è un mutamento repentino e neppure un totale rinnegamento di sé, ma un processo interno dialettico fra l'uomo antico e quello nuovo: si nota un contrasto tra due stati d'animo radicalmente dissimili: la sicurezza di un tempo nel compimento di delitti e scelleratezze senza rimorso e con il sentimento d'una vitalità rigorosa; la presenza dell'angoscia, a causa della coscienza e della memoria ripugnante del male realizzato nel tormento d'una solitudine tremenda. È una lotta decisiva tra l'uomo “vecchio”, che sta per tramontare, e l'uomo “nuovo”, che mostra i primi sintomi indubitabili della conversione.
Dopo la venuta di Don Rodrigo il tormento dell'Innominato si rivela improvvisamente in tutta la sua forza, e l'inquietudine aumenta sotto un assillo sempre più implacabile.
A esasperarlo ancora si aggiungono poi i fatti: la compassione del Nibbio, la vista e le parole di Lucia. Il breve colloquio col Nibbio è un nuovo passo verso l'aggropparsi di un tumulto interiore che non potrà non risolversi e placarsi in una decisione definitiva. Dinanzi a quella povera donna raggomitolata e tremante, egli ha sentito come non mai la miseria e la vanità della prepotenza di cui è sempre vissuto.
Sono pochi i temi letterari in grado di suscitare tanta curiosità quanto questo. Tutti noi abbiamo incontrato un racconto o un film in cui il motivo del “doppio” è presente in qualcuna delle sue svariate e mutevoli forme: storie di gemelli uno dei quali buono e l'altro malvagio, protagonisti dalla doppia personalità. Ne è un esempio la storia di “Il dottor Jeckill e Mr. Hyde”.
La crisi dell'Innominato è una crisi della volontà, di cui adesso si rende conto, e il punto decisivo per il mutamento è quando tutto quel che finora ha amato, desiderato, voluto, gli appare addirittura odioso. Risale di delitto in delitto e con crescente disperazione tutto gli appare insensato, senza un fine, una vuota corsa verso la morte. Afferra la pistola deciso a farla finita ma lo trattiene il pensiero di quell'altra vita. Non è tanto la paura dell'aldilà che lo angoscia, ma il bisogno di dare un senso alla sua vita. Improvvisamente gli tornano in mente come una promessa di speranza le parole di Lucia:
Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!
Al mattino avrebbe liberato la ragazza, l'avrebbe riportata alla madre...ma poi cosa avrebbe fatto dei suoi giorni?

Federica Gaspari 2Ds

9 febbraio 2011

Lo spettro del passato si abbatte anche sull'Innominato


C’è uno spettro  più terribile degli altri, che può avere capacità catastrofiche se ci trova impreparati:si tratta dello spettro dei ricordi dei brutti momenti o dei periodi passati.
Compare sotto forma di banali gesti già visti molto tempo prima, o di parole già ascoltate e odiate. L’eco del passato  bussa incessantemente e si tenta di nascondersene, ma nell’inconscio si apre una fessura della porta. Si diventa sospettosi e si perde la fiducia negli altri, rischiando di peggiorare la situazione.Si  vorrebbe estirpare il problema alla radice, ma quello rimane là, senza soluzione. E’ come avere il pranzo fermo sullo stomaco senza sapere come spostarlo da lì…e senza avere nessun “Effervescente Brioschi”! Dico tutto ciò perché non mi sento lontana da questa situazione.
E se io vi dicessi che anche l’Innominato aveva un problema simile,ma forse al contrario?
Egli era sempre stato forte, attratto dalla sfida e dalla fama che essa portava, ma soprattutto dal rispetto e dalla sottomissione che pensava di potersi guadagnare compiendo i più spregevoli delitti, le più impossibili missioni che a un uomo tranquillo non sarebbero nemmeno passate per la testa.
Si sentiva, insomma, forte delle sue azioni e più ne compiva più gli pareva di circondarsi di un’aurea di mistero, devozione e timore reverenziale che lo  poteva proteggere e immunizzare dagli altri.
Un vero e proprio tiranno. Come tale, però, dietro alla sua audacia e al più totale menefreghismo della normale vita umana e delle sue leggi, nascondeva altrettanta debolezza.
Infatti, dopo essersi impegnato con Don Rodrigo nel rapimento di Lucia, la sua fortezza mentale cominciava a cedere; e non su un qualsiasi punto insignificante, ma sulle più basilari fondamenta. Gli pareva di sentire dentro di sé una vocina che noi chiameremmo coscienza e che Manzoni individua subito come la voce divina che lo chiama, per cambiare prima che sia troppo tardi!


Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.
L’Innominato è comunque ancora abbastanza convinto di sé e cerca di ripudiare, nascondere e allontanare i propri pensieri e per distrarsi fa chiamare un suo fedele servitore e lo invia da Egidio, uno sciagurato collaboratore che avrà il compito di organizzare il rapimento di Lucia.
Crede, infatti, che sia utile cercare di mantenere il proprio vigore e non trasparire la nuvola temporalesca che si sta abbattendo sulla sua coscienza e che sta smuovendo tutte le sue certezze.
In realtà sarà proprio Lucia uno degli elementi della sua conversione.
In comune con lui credo di avere solo la paura di cambiare, di mostrare quello che provo dentro senza essere fraintesa dagli altri.
Lascio la parola a chiunque abbia una qualche esperienza simile e voglia provare a condividerla o a chi ha qualcosa di possibilmente utile da dire.

Debora Carolo

8 febbraio 2011

Lucia, Azzeccagarbugli & Co: un nome una garazia

“Don Rodrigo […] buttò la briglia al Tiradritto, uno dei suoi al seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo […] si cavò poi di tasca alcune berlinghe e le diede al Tanabuso […]. Intanto i tre bravi sopraddetti e lo Sqinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi da serbarceli con tanta cura) rimasero coi tre dell’innominato […]a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.”

Le persone vengono identificate con il loro nome per tutta la vita. Per questo motivo Manzoni scelse con molta cura come chiamare alcuni dei suoi personaggi, non in base al suono, ma per il significato e il messaggio da trasmettere ai lettori. Quasi affibbiando un’etichetta perenne, lo scrittore voleva far saltare agli occhi la caratteristica principale delle figure da lui descritte e imprimerle nella memoria di chi leggeva. Si riescono a distinguere i protagonisti degli antagonisti, i buoni dai cattivi, i violenti dai devoti a Dio. Viene data la possibilità di delineare un carattere senza conoscerlo. Tutto questo grazie ad una singola parola: il nome. Innescando una reazione a catena di idee e immagini si arriva a collegare questa serie di lettere con un carattere ben preciso. Basti pensare a Fra Cristoforo, dal latino colui che porta Cristo, che rimanda alla sua scelta fatta di servire la Chiesa. Perfino Lucia, la figura femminile più importante di tutto il romanzo, ha nel nome la purezza e devozione a Dio. Infatti Lucia viene da Luce e quindi dalla Luce Divina. Rodrigo, poi, oltre a richiamarne le origini spagnole, deriva dal germanico potente e ricco di gloria. Anche lo Sfregiato, uno dei bravi, rievoca i tagli e le lotte. Lo stesso personaggio se si fosse chiamato, ad esempio, Beniamino non sarebbe stato credibile. Oppure l’Innominato, così potente che il suo nome non può essere pronunciato, porta con sé un alone di mistero e di ignoto. Nel caso di alcuni bravi come Tiradritto, Montanarolo, Tanabuso e Squinternotto Manzoni conia dei nuovi nomi unendo due parole, proprio come con Azzeccagarbugli. Dal nome dell’avvocato già si capisce che quest’uomo è certamente in grado di “tirare fuori dai pasticci” chi si rivolge a lui, magari non sempre in modo chiaro.
Questo stesso espediente per definire un personaggio grazie al suo nome era stato precedentemente utilizzato da Dante Alighieri. Nel XXI canto dell’Inferno nella Divina Commedia Dante incontra in una bolgia i Malebranche, un gruppo di diavoli. Le entità malvagie hanno nomi come Rubicante, da rabbia e quindi il rabbioso, Cagnazzo, che si riferisce al suo aspetto animalesco e Graffiacane che rimanda agli artigli della creatura. Infine quando Dante arriva in Paradiso trova come sua guida Beatrice, il cui nome deriva da beato ed è quindi un’anima pura e vicina a Dio.
Marina Picardi

4 febbraio 2011

QUESTIONI D’ONORE




“ - E gli altri frati?
- Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall'altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e...
 - M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
 - Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
 - Come? Come? ”
(cap. XVIII)

Così Manzoni descrive l’ira del Conte zio, causata dalla mancanza di rispetto di fra’ Cristoforo nei confronti del nipote Rodrigo. Il Conte zio, informato da Attilio dell’accaduto, decide di intervenire perché l’atteggiamento del frate danneggia la sua reputazione e quella di tutto il suo casato. Si può facilmente capire che nella società dove è ambientato il romanzo, l’onore e l’autorità dei potenti vengono prima di tutto.
Fin dall’antichità, questo principio era ben radicato nelle tradizioni e determinava i rapporti tra il popolo e le famiglie nobili. Far parte di una determinata discendenza dava diritto a ricevere rispetto dagli altri, anche se non del tutto meritato. Come nel caso di don Rodrigo, che è la classica “pecora nera” della famiglia. Egli, infatti, a causa dei suoi vizi e del poco rispetto nei confronti del prossimo, abusa del suo potere e si caccia nei guai, la cui risoluzione è compito dell’autoritario zio.

Ma siamo sicuri che oggi, nel XXIesimo secolo, l’onore abbia perso tutta la sua importanza? Certamente col passare del tempo la società si è trasformata, ma in alcune zone, in alcune circostanze, l’onore e tutto ciò che esso comporta è ancora molto sentito. Ad esempio, nella mafia e in tutte le organizzazioni criminali! I vari clan sono come grandi famiglie, che vivono in lotta tra loro, sfidando la legge e approfittando del loro potere, costruito su minacce ed intimidazioni.
Alle volte per onore si arriva a compiere gesti estremi, primo tra questi l’omicidio. In diritto si parla di delitto d’onore, pratica ancora molto diffusa nei Paesi orientali. Non è raro, infatti, sentire che un uomo uccida la propria donna ( o meglio una delle sue donne ) perché accusata di adulterio. Tutto questo solo per salvare la propria reputazione agli occhi degli amici e dei conoscenti.
L’onore è stato sempre considerato per soli uomini, e le donne sono spesso le vittime di questo orgoglio maschile. Anche Manzoni ne riporta un esempio, tramite i pensieri dell’Innominato.

“… perdonatemi... Perdonatemi? Io domandar perdono? A una donna? Io…! ...” (cap. XXI)

Detto questo, secondo voi, l’onore di famiglia è vivo nella nostra società?


Nicola Bazzan

3 febbraio 2011

Il castello dell'innominato



“Del resto , non che lassù, ma neppure nella valle, e neppure di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello.”

Il castello dell’Innominato è un esempio di locus asper e, come ogni dimora del tipico personaggio cattivo che si rispetti, mette soggezione soltanto nel descriverla.
“…era a cavaliere di una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra goigaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti.”

Anche questo castello, come quello di Don Rodrigo, rispecchia la personalità del suo proprietario. L’Innominato, infatti, è una persona riservata che non ama stare a contatto con la gente e per questo ha costruito il suo castello lontano da tutto e da tutti.

La casa non rispecchia solo la personalità ma anche i gusti di una persona. Entrando in una casa, per esempio, dai quadri affissi alle pareti si può capire chi è il pittore preferito del proprietario, i suoi gusti musicali ed anche se e cosa ama leggere, semplicemente osservando la sua libreria.
I ragazzi, poi, prestano una grande attenzione nel personalizzare la propria camera. Amano appendere alle pareti i poster dei loro attori preferiti, riempire la stanza di foto, disegni e frasi, mettendo in risalto persone, luoghi,momenti e parole che sono o che sono state più importanti per loro.
La casa può rappresentare uno status-symbol, cioè evidenziare la collocazione sociale del proprietario. Come nel passato i nobili vivevano in sontuose regge circondate da enormi parchi attorno ai quali abitava la classe sociale meno agiata, oggi, nelle metropoli in via di sviluppo (il Cairo, ad esempio), possiamo vedere lussuosissime ville confinanti con squallide baracche prive d’acqua corrente ed elettricità.
Attualmente nei paesi Occidentali questa differenza è meno marcata, anche se nella nostra società pare sia più importante apparire che essere. Infatti, anche attraverso le case, le persone vogliono offrire un’immagine precisa di se stessi, esattamente come l’Innominato che preferisce costruire una dimora che metta angoscia e paura: l’immagine che lui vuole dare di sè agli altri.

Giorgia Signoretto