28 aprile 2011

UN AMORE IMPOSSIBILE??



Don Abbondio e Perpetua,personaggi diversi ma allo stesso tempo simili e indispensabili l'uno per l'altro.
Lui cosi statico,debole e consapevole di esserlo,paranoico,ipocrita,egoista,continuamente sottomesso al potere,altezzoso e timoroso di tutto; un personaggio che non sopporto invece lei,una donna ”serva” del curato , fedele,affezionata e anche ubbidiente al proprio padrone. Convivono ma hanno lo stesso rapporto che avrebbe una coppia . Lui si confida con lei , raccontandole anche i segreti più intimi e lei cosi unita a lui cerca sempre di aiutarlo,senza tradirlo mai.
Ovviamente tra i due i litigi non mancano mai e soprattutto verso la fine del romanzo si intensificano sempre più!
Possiamo dire che sono come cane e gatto e questo loro rapporto particolare mi ricorda quello che esisteva tra Raimondo Vianello e Sandra Mondaini : due icone dello spettacolo , una delle coppie più amate dagli italiani.
Per la mia giovane età ricordo solo alcune puntate di “Casa Vianello” che guardavo quando ero con i nonni , ciò che so di loro l'ho letto soprattutto sui giornali al momento della loro scomparsa.
Il loro amore è nato sul set ed è durato un'intera esistenza,era un grande amore perchè ha superato anche l'ostilità del mondo dello spettacolo,che non è certo il posto ideale perchè si creino rapporti stabili e duraturi.
Sia come presentatori che come comici,erano sempre in contrasto tra loro , ma piacevano per questo:avevano trovato la formula giusta per il loro successo.
Anche Manzoni ci descrive Don Abbondio e Perpetua facendoli apparire cosi; per creare dei personaggi particolari che possano colpire l'attenzione e divertire il lettore,consapevole che possono non piacere ,come Don Abbondio che arriva a dar fastidio ed essere quasi “ridicolo”.
Chissà,magari tra i due sarebbe potuto nascere qualcosa,un'amore profondo e duraturo,se lui non avesse scelto di prendere una strada a senso unico?
Nonostante le numerose litigate ,che devono esserci ogni tanto in una coppia, erano sempre uniti forse anche perchè erano costretti a convivere!
Secondo me i due personaggi sono innamorati , magari devono ancora scoprirlo o forse sapendo che sarebbe un amore impossibile non ci pensano nemmeno.
Personalmente mi piacerebbero come coppia, ma voi cosa pensate,sarebbe un amore possibile quello tra Don Abbondio e Perpetua?

Veronica Rigodanza 2Ds

“Chiudere gli occhi” o accettare la realtà?



"In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali […]. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente peste senza dubbio e senza contrasto.” Cap. XXXI

Nel capitolo XXXI entra in scena la peste. Se l’arrivo di una qualsiasi epidemia scatena paura nella popolazione, con la peste il terrore aumenta notevolmente. Tutti -dai più colti agli analfabeti- temono talmente l’idea del contagio da chiamarlo con i nomi più disparati, “sminuendolo” e sottovalutandolo. Così, pur di allontanare (e quindi di non affrontare) il pensiero di questa catastrofe, si crea attorno alla realtà un castello di menzogne. Per quanto grande diventi questo castello, però, nulla può impedire al problema, nascosto ma reale, di esplodere, in questo caso con effetti disastrosi.  L’aver ignorato la malattia porta, infatti, ad un contagio maggiore. Ai morti a causa della peste bisogna aggiungere poi quelli condannati come untori. Se proprio non si può negare l’evidenza, un colpevole contro il quale puntare il dito almeno impedisce di riconoscere la colpa di ogni persona nel non aver preso precauzioni.
Per vivere più tranquilli si dà una diversa interpretazione non solo come in questo caso della peste, ma di tutto quello che preoccupa. Si allontanano i problemi, magari quelli più pressanti e spinosi, per non sconvolgere un equilibrio, per non mettere a repentaglio la propria felicità. Proprio come cantavano i Beatles “vivere è facile con gli occhi chiusi”. Ma più si rimanda e occulta la questione, più la si avvicina. Si vorrebbero voltare le spalle ad un problema, fra finta che nulla accada. Ci si ripete che va tutto bene e ci si autoconvince di questo piuttosto che  “prendere il toro per le corna” e cercare una soluzione. Si vorrebbe accantonare ciò di più scomodo, sperando magari che si risolva da solo, proprio come era stato fatto con la peste del 1629. Mentre i secoli passano, però, la natura umana non cambia. Se si pensa all’incidente della centrale nucleare di Fukushima in Giappone e al fatto che il livello di radioattività sia risultato (ufficialmente) pari a quello di Chernobyl nel 1986 solo dopo giorni e giorni dal disastro nucleare. La situazione sembra non essere più sotto controllo a differenza delle dichiarazioni iniziali che erano più rassicuranti, ma probabilmente poco vere.
E voi? Preferite vivere con gli occhi chiusi,ma felici, oppure affrontare la non sempre facile realtà?

Marina Picardi

18 aprile 2011

BARCONE AVVISTATO: DON ABBONDIO SEDUTO A PRUA





Quando non c’è più niente da fare. Quanto ci si sente disperati, con l’acqua alla gola. Quando non ce la si fa più.
E’ in quel momento che la speranza appare solo una: la fuga.
Via, andare via da tutti e a da tutto, sciogliere ogni legame con quel mondo che sta stretto, che sembra solo un incubo.
E’ a quel punto che si paga un barcone malandato come se fosse una crociera. E’ in quel momento che si decide di mollare tutto, affrontare qualsiasi paura, attraversare l’Inferno piuttosto di trovare una vita nuova.
Purtroppo in questi giorni di storie con questo modello ce ne sono a migliaia e tutti le vedono, passano sotto gli occhi e sono in grado di suscitare anche qualche lacrima … pochi sopportano la disperazione altrui. Eppure risulta difficile intervenire davvero, risulta difficile accogliere chi si trova in una delle più grosse difficoltà umane.
Strano, se non sbaglio tutti i popoli hanno una storia che è stata toccata almeno una volta dalla fuga, dall’esodo, dall’emigrazione. Rifugiati politici, religiosi, clandestini, persone di ogni provenienza, con le più svariate intenzioni e i più ambiziosi sogni. Tutti con la stessa comune necessità di trovare un luogo accogliente, diverso da quello di partenza, che appare come un miraggio.
L’Ebreo che cerca la Terra Promessa, l’emigrante che va in America per farsi una “nuova vita” nel Nuovo Continente, il cervello dello studente giovane e preparato che fugge alla ricerca di incentivi al suo lavoro e la sua ricerca, l’Egiziano, il Tunisino, il Libico disperato che vuole andare in Europa, che vuole trovare un lavoro e poi chiamare lì la sua famiglia per vivere finalmente una vita dignitosa e soprattutto normale.
A quanti, nel proprio piccolo, non è successo di cercare una via di fuga estrema?
Persino il nostro Don Abbondio ha provato qualcosa del genere:


Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch'io con voi; aspettate d'esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch'io non sia abbandonato.


Pensate, un uomo che già normalmente ha paura di ogni possibile problema o “impiccio” della vita, che si trova ad affrontare l’arrivo dei lanzichenecchi, con la fama talmente terribile da scatenare il panico prima del loro arrivo. Ovviamente, il nostro curato agisce come da copione:
pensa solo a se stesso e a trovare qualcuno che lo possa portare in salvo. Per fortuna Perpetua mantiene i nervi saldi e decide con Agnese di recarsi al castello dell’Innominato, da poco convertito e diventato fonte di salvezza per ogni vivente, per trovare rifugio. E assieme a loro molti poveri contadini, pastori e gente comune che all’improvviso si trova a dover scappare a causa degli affari e dei contrasti tra uomini ricchi e famosi che nemmeno si sono mai visti in giro, i cosiddetti “potenti”.
Insomma la storia è sempre quella, che si ripete con forme e nomi diversi, ma è sempre la stessa.
E voi? Vi è mai capitato di voler o dover fuggire?

Debora Carolo

13 aprile 2011

LAZZARETTO: LUOGO DI CURA O DI MORTE?

Il lazzaretto era un luogo di confinamento e d'isolamento per portatori di malattie contagiose, in particolar modo di lebbra e di peste. Nelle città costiere, come Venezia,era anche un luogo chiuso in cui merci e persone provenienti da paesi di possibile contagio dovevano trascorrere un soggiorno di determinata durata, spesso di quaranta giorni, da cui il termine quarantena.                                                                                                                       Sull'origine del nome "lazzaretto" ci sono due ipotesi: la prima viene ricondotta a quella del lebbroso Lazzaro venerato come protettore delle persone affette da tale morbo, la seconda invece richiama il primo lazzaretto, quello di Santa Maria di Nazareth a Venezia, il cui appellativo si è trasformato da Nazareth a nazaretto a lazzaretto. Durante i periodi di maggior contagio, tali luoghi si riempivano di ammalati che diventavano rapidamente cadaveri: le condizioni igieniche precarie invece che arginare un contagio, lo favorivano, con il sovraffollamento, la vicinanza con il personale medico, che facilmente si ammalava a sua volta, e la mancanza di alcune condizioni igieniche. In generale tale struttura ha pianta quadrata ed è posto nella periferia della città o comunque fuori dalle mura. Al centro è situata una chiesa in cui vengono anche seppelliti i cadaveri. Le camere, circa trecento, sono delle semplici celle che si affacciano sul portico mediante una finestra e una porticina. La struttura tipica della cella presenta, al centro della parete, un camino, alla sua sinistra, in una nicchia, il gabinetto arieggiato mediante una piccola feritoia, e l’acquaio in pietra arenaria, accanto al quale si trova un armadio a muro.    
Una serie di personaggi operavano all'interno del lazzaretto: dai medici bardati con mascherine con naso adunco (vedi foto) a barbieri, frati,guardiani, cuochi ed inservienti.
monatti erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: essi dovevano togliere i cadaveri dalle strade e dalle case e portarli alle fosse comuni, dovevano accompagnare i malati al lazzaretto e avevano il compito di bruciare gli oggeti infetti e di chiudere le case dei malati. Comunque, anche svolgendo questo lavoro, i monatti sono stati considerati persone spregevoli: essi infatti entravano nelle case per rubare e non avevano pietà e rispetto per i malati. Il loro abito rosso scuro ed il campanello legato al piede, che costituivano la loro triste divisa, erano per la popolazione indifesa simbolo dell'orrore della peste.
Venezia fu probabilmente la prima città ad allestire un lazzaretto in Italia. Altri lazzaretti importanti nel nostro Paese erano situati a Padova, Verona, Cagliari, Bergamo e ovviamente a Milano, protagonista del capitolo XXXI dei Promessi sposi. A Vicenza era situato presso l'attuale chiesa di San Giorgio in Gogna.                                            
Anche Campo Marzio però, pur non essendo un vero e proprio lazzaretto era comunque un luogo di raccolta di appestati e morenti.
Poco resta degli antichi lazzaretti oggi; a Milano sotto il portico superstite è murata una vecchia lapide che riporta le parole latine "O viandante il passo trattieni ma non il pianto".
                                                                                                    



10 aprile 2011

ESISTE ANCORA IL "COLTO DEL PAESE"?



“Uomo di studio, a cui non gli piaceva né di comandare né d’ubbidire”

Ed ecco Don Ferrante,  un personaggio dei Promessi Sposi, marito di donna Prassede, considerati il colto del paese, ammirato da tutti per la sua saggezza. Manzoni nel suo romanzo parla di questa figura con una leggera ironia e lo prende come esempio dello studioso dell’epoca. Scaffali pieni di libri e lunghe giornate passate a leggerli, oltre a una grande passione per l’astronomia .

“Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta. Tutte opere delle riputate, in varie materie ;in ognuno delle quali era più o meno versato.”

 In realtà ai giorni d’oggi non esistono più figure come quella di Don Ferrante;  mentre una volta la cultura (e quindi di conseguenza lo stato sociale di una persona) si misuravano anche attraverso il numero di libri posseduti e letti, oggi i punti di riferimento sono ben altri. Durante il periodo Manzoniano,  gran parte della popolazione era analfabeta ed erano solamente in pochi coloro che avevano il privilegio di studiare, in questo modo c’era un forte dislivello culturale tra la gente. Gli analfabeti vedevano tutto ciò che veniva detto dalle persone che avevano studiato come qualcosa di estremamente vero e incontestabile, facendo nascere così il mito del “colto del paese”, colui che sa tutto. Oggi, invece, considerando che tutti hanno diritto a riceve un’istruzione scolastica di base, queste disparità tra la popolazione sono scomparse quasi del tutto. Le selezioni culturali però capitano a volte tra gli anziani del paese, dove pochi sono quelli che hanno concluso la scuola, e in questo caso le persone che svolgono” lavori importanti” godono di maggiore rispetto. Oggi giorno le parole dello studioso non vengono  prese sempre in considerazione perché di colti ce ne sono molti di più. La maggior parte della popolazione è in grado di farsi da sola una opinione che a volte può essere in contraddizione con quella degli studiosi. Secondo voi come si sarebbe trovato il nostro Don Ferrate a vivere in un’epoca come la nostra, dove una figura come la sua sarebbe stata una tra le tante?

Valentina Gentilin