13 aprile 2011

LAZZARETTO: LUOGO DI CURA O DI MORTE?

Il lazzaretto era un luogo di confinamento e d'isolamento per portatori di malattie contagiose, in particolar modo di lebbra e di peste. Nelle città costiere, come Venezia,era anche un luogo chiuso in cui merci e persone provenienti da paesi di possibile contagio dovevano trascorrere un soggiorno di determinata durata, spesso di quaranta giorni, da cui il termine quarantena.                                                                                                                       Sull'origine del nome "lazzaretto" ci sono due ipotesi: la prima viene ricondotta a quella del lebbroso Lazzaro venerato come protettore delle persone affette da tale morbo, la seconda invece richiama il primo lazzaretto, quello di Santa Maria di Nazareth a Venezia, il cui appellativo si è trasformato da Nazareth a nazaretto a lazzaretto. Durante i periodi di maggior contagio, tali luoghi si riempivano di ammalati che diventavano rapidamente cadaveri: le condizioni igieniche precarie invece che arginare un contagio, lo favorivano, con il sovraffollamento, la vicinanza con il personale medico, che facilmente si ammalava a sua volta, e la mancanza di alcune condizioni igieniche. In generale tale struttura ha pianta quadrata ed è posto nella periferia della città o comunque fuori dalle mura. Al centro è situata una chiesa in cui vengono anche seppelliti i cadaveri. Le camere, circa trecento, sono delle semplici celle che si affacciano sul portico mediante una finestra e una porticina. La struttura tipica della cella presenta, al centro della parete, un camino, alla sua sinistra, in una nicchia, il gabinetto arieggiato mediante una piccola feritoia, e l’acquaio in pietra arenaria, accanto al quale si trova un armadio a muro.    
Una serie di personaggi operavano all'interno del lazzaretto: dai medici bardati con mascherine con naso adunco (vedi foto) a barbieri, frati,guardiani, cuochi ed inservienti.
monatti erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: essi dovevano togliere i cadaveri dalle strade e dalle case e portarli alle fosse comuni, dovevano accompagnare i malati al lazzaretto e avevano il compito di bruciare gli oggeti infetti e di chiudere le case dei malati. Comunque, anche svolgendo questo lavoro, i monatti sono stati considerati persone spregevoli: essi infatti entravano nelle case per rubare e non avevano pietà e rispetto per i malati. Il loro abito rosso scuro ed il campanello legato al piede, che costituivano la loro triste divisa, erano per la popolazione indifesa simbolo dell'orrore della peste.
Venezia fu probabilmente la prima città ad allestire un lazzaretto in Italia. Altri lazzaretti importanti nel nostro Paese erano situati a Padova, Verona, Cagliari, Bergamo e ovviamente a Milano, protagonista del capitolo XXXI dei Promessi sposi. A Vicenza era situato presso l'attuale chiesa di San Giorgio in Gogna.                                            
Anche Campo Marzio però, pur non essendo un vero e proprio lazzaretto era comunque un luogo di raccolta di appestati e morenti.
Poco resta degli antichi lazzaretti oggi; a Milano sotto il portico superstite è murata una vecchia lapide che riporta le parole latine "O viandante il passo trattieni ma non il pianto".
                                                                                                    



10 aprile 2011

ESISTE ANCORA IL "COLTO DEL PAESE"?



“Uomo di studio, a cui non gli piaceva né di comandare né d’ubbidire”

Ed ecco Don Ferrante,  un personaggio dei Promessi Sposi, marito di donna Prassede, considerati il colto del paese, ammirato da tutti per la sua saggezza. Manzoni nel suo romanzo parla di questa figura con una leggera ironia e lo prende come esempio dello studioso dell’epoca. Scaffali pieni di libri e lunghe giornate passate a leggerli, oltre a una grande passione per l’astronomia .

“Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta. Tutte opere delle riputate, in varie materie ;in ognuno delle quali era più o meno versato.”

 In realtà ai giorni d’oggi non esistono più figure come quella di Don Ferrante;  mentre una volta la cultura (e quindi di conseguenza lo stato sociale di una persona) si misuravano anche attraverso il numero di libri posseduti e letti, oggi i punti di riferimento sono ben altri. Durante il periodo Manzoniano,  gran parte della popolazione era analfabeta ed erano solamente in pochi coloro che avevano il privilegio di studiare, in questo modo c’era un forte dislivello culturale tra la gente. Gli analfabeti vedevano tutto ciò che veniva detto dalle persone che avevano studiato come qualcosa di estremamente vero e incontestabile, facendo nascere così il mito del “colto del paese”, colui che sa tutto. Oggi, invece, considerando che tutti hanno diritto a riceve un’istruzione scolastica di base, queste disparità tra la popolazione sono scomparse quasi del tutto. Le selezioni culturali però capitano a volte tra gli anziani del paese, dove pochi sono quelli che hanno concluso la scuola, e in questo caso le persone che svolgono” lavori importanti” godono di maggiore rispetto. Oggi giorno le parole dello studioso non vengono  prese sempre in considerazione perché di colti ce ne sono molti di più. La maggior parte della popolazione è in grado di farsi da sola una opinione che a volte può essere in contraddizione con quella degli studiosi. Secondo voi come si sarebbe trovato il nostro Don Ferrate a vivere in un’epoca come la nostra, dove una figura come la sua sarebbe stata una tra le tante?

Valentina Gentilin 

29 marzo 2011

LE TRE ‘C’ NELLA VITA DI LUCIA MONDELLA




Lucia Mondella è il personaggio più statico del romanzo ‘I Promessi Sposi’. Mentre altri personaggi si evolvono e, in alcuni casi, cambiano radicalmente lei non cambia di ‘una virgola’. È molto legata alla madre; è timida; agisce poco per paura del cambiamento e, a mio parere, è anche abbastanza noiosa.
Al giorno d’oggi donne con la personalità di Lucia sono più rare, poichè la vita offre più possibilità di un tempo: oggi risulterebbe un po’ ridicolo pensare che un ragazzo non voglia separarsi dai genitori. Quasi tutti i giovani, appena ne hanno l’occasione, se ne vanno di casa per fare nuove esperienze ma soprattutto perché vogliono costruirsi una vita propria, separata da quella dei genitori.
A questo proposito mi viene in mente un film che ho visto poco tempo fa al cinema dal titolo “Immaturi”.
Il film racconta la storia di un gruppo di adulti cui tocca la sfortuna di ripetere la maturità perché il loro esame, sostenuto vent’anni prima, viene annullato per delle irregolarità. Tra di loro c’è un quarantenne che vive ancora a casa con i genitori e non fa niente per cambiare questa situazione, probabilmente perché non ha ancora trovato nessun motivo per farlo.
Lucia Mondella, invece, esita ad andarsene di casa e a sposare Renzo perché ha paura dei cambiamenti: farlo, infatti, vorrebbe dire separarsi dalla madre e interrompere il continuo rapporto che ha con lei.
Quindi possiamo dire che la Casa è la prima ‘c’ di Lucia.
La seconda ‘c’ invece è ovviamente la Chiesa. La ragazza si affida in tutto per tutto al Signore e alla Provvidenza e tutto quello che accade, secondo lei, è già stato deciso lassù e quindi non bisogna, né si può, andare contro la volontà divina.
Penso che sia sbagliato il modo in cui si comporta Lucia, perché bisogna agire e non accettare passivamente quello che accade: come disse lo storico romano Sallustio, “faber est suae quisqe fortunae” e cioè ciascuno è l’autore del proprio destino o, per dirla più ‘terra terra’, ognuno è ciò che fa.
Esprimendo il concetto in matematica
C(asa) + C(hiesa) – C(ambiamenti) = Lucia

Voi invece cosa pensate? Ci si può opporre al proprio destino e quindi modificarlo oppure bisogna rimanere inermi e restare a guardare mentre la vita va avanti?

27 marzo 2011

Stessa persona, diverse identità




In seguito al colloquio tra Lucia e Agnese nel ventiseiesimo capitolo, con continui riferimenti a Renzo, il narratore ci informa degli ultimi sviluppi della vicenda del giovane. Nell’ottica deformante della burocrazia egli è infatti soltanto un nome su un documento che passa di mano in mano, da un funzionario all’altro. Più che un nome, nell’immaginario collettivo di politici insensibili e uomini che condannano facilmente, Renzo diventa “IL” nome agli occhi della giustizia che non si preoccupa minimamente di verificare come siano realmente i fatti, ma si limita all’apparenza, a ciò che si è sentito dire.
Accanto all’ingenuità di questi personaggi si aggiunge l’ironia dello stesso Manzoni che li rappresenta beffati da un umile popolano, il cugino Bortolo. Egli, oltre ad inventare storielle su Renzo per trarre in inganno i non pochi curiosi, riesce con le sue piccole astuzie a depistare la giustizia e a salvarlo, presentandolo in una nuova filanda sotto il nome fittizio di Antonio Rivolta.

“Bortolo lo condusse a un altro filatoio e lo presento sotto il nome di Antonio Rivolta, al padrone, ch’era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente. [...] Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; meno che gli era parso che il giovane dovesse essere un po’ stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva.”

Ancora oggi la doppia identità rimane un simbolo di evasione da quello che si è in origine, per motivi molteplici, che possono essere di natura sociale, legati alla giustizia e non solo. Celebri esempi alimentati da questo tema sono i collaboratori di giustizia che devono cambiare connotati per sè e per i propri familiari ai fini della salvaguardia della propria vita.
L'utilizzo di doppie identità purtroppo si affianca troppo spesso anche a nomi di mafiosi; tra questi c’è il capo-mafia Bernardo Provenzano, latitante dal 1963. Si faceva chiamare Ingegner Lo Verde, era considerato il capo dei capi e nonostante molti sapessero la sua vera identità, ci sono voluti quasi 40 anni perché giustizia sia fatta (quarant’anni passati in buoni rapporti col sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ma poi il “tradito” dal figlio di quest’ultimo, Massimo). Non si tratta però di personaggi inventati e "innocenti" come Renzo che, nel romanzo, attraverso stratagemmi fa perdere le tracce di sé; i personaggi attuali, seppur sotto diverse spoglie, sono comunque conosciuti tra le persone e chi per paura, chi per affari non li denuncia. Ed ecco alimentato un giro che è pane quotidiano specialmente nel sud Italia.

Bisognerebbe, forse, intraprendere una “caccia” sistematica perché di Ingegner Lo Verde ce ne sono troppi.


Sergio Paiu

18 marzo 2011

Due persone agli antipodi: don Abbondio VS il cardinale Borromeo


"[…]Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente: stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d' una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del quale l' aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora una nuova impressione[…]"

La seconda parte del capitolo XX e l’ inizio di quello successivo dei Promessi Sposi, sono interamente occupate dal colloquio fra il Cardinale Borromeo e Don Abbondio. Il curato viene chiamato alla resa dei conti dal suo superiore per non aver celebrato il matrimonio tra Renzo  e Lucia. Anche  di fronte ai rimproveri, il povero cuor di leone,  non capisce che il suo vero compito doveva essere quello di santificare l’ amore tra Renzo e Lucia mediante il matrimonio. Il contrasto tra i due caratteri e le due coscienze in questo breve ma significativo incontro è inevitabile.    La sola cosa che unisce queste due figure probabilmente è la religione che si manifesta però in modi differenti. Don Abbondio come  la Monaca di Monza, è un personaggio fondamentale per il corso della storia. Le loro azioni e i loro comportamenti hanno effetti negativi per i due protagonisti. A loro si contrappongono Fra Cristoforo e Borromeo che, invece, cercano di favorire il loro amore. Don Abbondio aveva deciso di farsi prete seguendo il consiglio dei suoi familiari che, bene avevano capito come lui, essendo così debole, non fosse in grado di farsi rispettare e quanto la chiesa rappresentasse una potenziale forma di protezione. Lo spirito religioso che lo caratterizza è superficiale e meno autentico rispetto a quello del suo superiore.  Infatti il cardinale non aderisce alla religione  per “consiglio”  familiare ma solo dopo un lungo periodo di meditazione. Si può dire che Don Abbondio, trovandosi costretto a vivere in una società di prepotenti (quali ad esempio don Rodrigo, i bravi…), ha preso i voti per scappare dalle preoccupazioni senza però riflettere sui veri doveri ed obblighi nei confronti della comunità. Ciò che governa il suo carattere è la paura. Paura che gli impedisce di mettersi davanti alle sue responsabilità e di affrontarle, facendolo chiudere a “riccio”e scaricando le sue colpe sugli altri.  Don Abbondio afferma infatti: “Il Coraggio, uno non se lo può dare”. Il cardinale Borromeo invece, rappresenta un modello religioso da seguire, per i suoi atteggiamenti dolci, gentili,cortesi e anche se qualche volta bruschi, egli era sempre ammirato e stimato da tutti.
Originalissimo! Ecco, forse questa è la parola corretta per descrivere il colloquio tra i due. Ma ancora più significative sono le reazioni e le continue scuse e giustificazioni di Don Abbondio. È anche vero però, che se non fosse stato creato questo personaggio, il romanzo sarebbe finito nei i primi capitoli! 
E oggi,  quando una persona non adempie al proprio compito, cerca di discolparsi come ha fatto Don Abbondio?

Segato Giacomo Filippo

2Ds

3 marzo 2011

Una "strana" nonnina


“[…] Ma vedendo che tutti gl’incanti riuscivano inutili, «siete voi che non volete,» disse. «Non istate poi a dirgli ch’io non v’ho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza anche per voi, per quando metterete a giudizio, e vorrete ubbidire.»
[…] «Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S’è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?»
« No, no; lasciatemi stare»
«Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che v’ho pregata più volte.[…]"

La vecchia, descritta dal Manzoni, ci viene presentata per la prima volta alla fine del ventesimo capitolo mentre Lucia, rapita con l’inganno dai bravi dell’Innominato, sta arrivando alla taverna della Malanotte.
Questa locanda si trovava all’inizio di una ripida strada in salita che portava al castello dell’Innominato.
La vecchia era la fedele serva dell’Innominato e non poteva ribellarsi perché nata in un mondo in cui chi aveva potere poteva sottomettere le persone più deboli. Da giovane donna si era sposata con un servo, il quale morì in una spedizione pericolosa e, da quando accadde questo, lei uscì sempre meno dal castello. È una donna priva di sentimenti e questo si può notare dal fatto che il Manzoni non lascia spazio nella vita della donna all’amore, nemmeno descrivendo il suo matrimonio. Inoltre ci viene descritta come una figura con qualcosa di stregonesco e grottesco insieme: mento appuntato, occhi infossati e la presenza delle occhiaie.
In questo romanzo ha il compito di assistere Lucia durante la permanenza nella sua stanza facendole coraggio, offrendole cibo. Tutto questo perché l’Innominato gliel’ha ordinato, infatti svolge il suo lavoro senza mostrare nessun segno di compassione nei confronti di Lucia, ma pensando soltanto a mangiare e a dormire, due delle cose importanti nella vita di qualunque persona.

I nonni, di solito, con i loro nipotini, tendono ad essere affettuosi, gentili e capaci di farsi amare viziandoli, comprando loro il gelato o le caramelle che la madre non metterebbe mai dentro la borsa della spesa. Ma sanno farsi rispettare in qualsiasi maniera a seconda della situazione e dell’età del nipote. In molte circostanze, però, sostituiscono i genitori quando questi non possono occuparsi dei propri figli, portandoli al mercato o al parco giochi. In questo modo riescono a passare anche loro una giornata divertente e, se faticosa, l’hanno fatto per far divertire i loro nipotini. E i vostri nonni come si comportano?

Zarantonello Gessica, 2^Ds

23 febbraio 2011

ESSERE O NON ESSERE?


Ma c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pura in furia, era andato a letto.”

Calata la notte, irrompe nell'animo del Signore angoscia e tormento...
È un uomo che lotta con se stesso, poiché una conversione non è un mutamento repentino e neppure un totale rinnegamento di sé, ma un processo interno dialettico fra l'uomo antico e quello nuovo: si nota un contrasto tra due stati d'animo radicalmente dissimili: la sicurezza di un tempo nel compimento di delitti e scelleratezze senza rimorso e con il sentimento d'una vitalità rigorosa; la presenza dell'angoscia, a causa della coscienza e della memoria ripugnante del male realizzato nel tormento d'una solitudine tremenda. È una lotta decisiva tra l'uomo “vecchio”, che sta per tramontare, e l'uomo “nuovo”, che mostra i primi sintomi indubitabili della conversione.
Dopo la venuta di Don Rodrigo il tormento dell'Innominato si rivela improvvisamente in tutta la sua forza, e l'inquietudine aumenta sotto un assillo sempre più implacabile.
A esasperarlo ancora si aggiungono poi i fatti: la compassione del Nibbio, la vista e le parole di Lucia. Il breve colloquio col Nibbio è un nuovo passo verso l'aggropparsi di un tumulto interiore che non potrà non risolversi e placarsi in una decisione definitiva. Dinanzi a quella povera donna raggomitolata e tremante, egli ha sentito come non mai la miseria e la vanità della prepotenza di cui è sempre vissuto.
Sono pochi i temi letterari in grado di suscitare tanta curiosità quanto questo. Tutti noi abbiamo incontrato un racconto o un film in cui il motivo del “doppio” è presente in qualcuna delle sue svariate e mutevoli forme: storie di gemelli uno dei quali buono e l'altro malvagio, protagonisti dalla doppia personalità. Ne è un esempio la storia di “Il dottor Jeckill e Mr. Hyde”.
La crisi dell'Innominato è una crisi della volontà, di cui adesso si rende conto, e il punto decisivo per il mutamento è quando tutto quel che finora ha amato, desiderato, voluto, gli appare addirittura odioso. Risale di delitto in delitto e con crescente disperazione tutto gli appare insensato, senza un fine, una vuota corsa verso la morte. Afferra la pistola deciso a farla finita ma lo trattiene il pensiero di quell'altra vita. Non è tanto la paura dell'aldilà che lo angoscia, ma il bisogno di dare un senso alla sua vita. Improvvisamente gli tornano in mente come una promessa di speranza le parole di Lucia:
Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!
Al mattino avrebbe liberato la ragazza, l'avrebbe riportata alla madre...ma poi cosa avrebbe fatto dei suoi giorni?

Federica Gaspari 2Ds

9 febbraio 2011

Lo spettro del passato si abbatte anche sull'Innominato


C’è uno spettro  più terribile degli altri, che può avere capacità catastrofiche se ci trova impreparati:si tratta dello spettro dei ricordi dei brutti momenti o dei periodi passati.
Compare sotto forma di banali gesti già visti molto tempo prima, o di parole già ascoltate e odiate. L’eco del passato  bussa incessantemente e si tenta di nascondersene, ma nell’inconscio si apre una fessura della porta. Si diventa sospettosi e si perde la fiducia negli altri, rischiando di peggiorare la situazione.Si  vorrebbe estirpare il problema alla radice, ma quello rimane là, senza soluzione. E’ come avere il pranzo fermo sullo stomaco senza sapere come spostarlo da lì…e senza avere nessun “Effervescente Brioschi”! Dico tutto ciò perché non mi sento lontana da questa situazione.
E se io vi dicessi che anche l’Innominato aveva un problema simile,ma forse al contrario?
Egli era sempre stato forte, attratto dalla sfida e dalla fama che essa portava, ma soprattutto dal rispetto e dalla sottomissione che pensava di potersi guadagnare compiendo i più spregevoli delitti, le più impossibili missioni che a un uomo tranquillo non sarebbero nemmeno passate per la testa.
Si sentiva, insomma, forte delle sue azioni e più ne compiva più gli pareva di circondarsi di un’aurea di mistero, devozione e timore reverenziale che lo  poteva proteggere e immunizzare dagli altri.
Un vero e proprio tiranno. Come tale, però, dietro alla sua audacia e al più totale menefreghismo della normale vita umana e delle sue leggi, nascondeva altrettanta debolezza.
Infatti, dopo essersi impegnato con Don Rodrigo nel rapimento di Lucia, la sua fortezza mentale cominciava a cedere; e non su un qualsiasi punto insignificante, ma sulle più basilari fondamenta. Gli pareva di sentire dentro di sé una vocina che noi chiameremmo coscienza e che Manzoni individua subito come la voce divina che lo chiama, per cambiare prima che sia troppo tardi!


Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.
L’Innominato è comunque ancora abbastanza convinto di sé e cerca di ripudiare, nascondere e allontanare i propri pensieri e per distrarsi fa chiamare un suo fedele servitore e lo invia da Egidio, uno sciagurato collaboratore che avrà il compito di organizzare il rapimento di Lucia.
Crede, infatti, che sia utile cercare di mantenere il proprio vigore e non trasparire la nuvola temporalesca che si sta abbattendo sulla sua coscienza e che sta smuovendo tutte le sue certezze.
In realtà sarà proprio Lucia uno degli elementi della sua conversione.
In comune con lui credo di avere solo la paura di cambiare, di mostrare quello che provo dentro senza essere fraintesa dagli altri.
Lascio la parola a chiunque abbia una qualche esperienza simile e voglia provare a condividerla o a chi ha qualcosa di possibilmente utile da dire.

Debora Carolo

8 febbraio 2011

Lucia, Azzeccagarbugli & Co: un nome una garazia

“Don Rodrigo […] buttò la briglia al Tiradritto, uno dei suoi al seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo […] si cavò poi di tasca alcune berlinghe e le diede al Tanabuso […]. Intanto i tre bravi sopraddetti e lo Sqinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi da serbarceli con tanta cura) rimasero coi tre dell’innominato […]a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.”

Le persone vengono identificate con il loro nome per tutta la vita. Per questo motivo Manzoni scelse con molta cura come chiamare alcuni dei suoi personaggi, non in base al suono, ma per il significato e il messaggio da trasmettere ai lettori. Quasi affibbiando un’etichetta perenne, lo scrittore voleva far saltare agli occhi la caratteristica principale delle figure da lui descritte e imprimerle nella memoria di chi leggeva. Si riescono a distinguere i protagonisti degli antagonisti, i buoni dai cattivi, i violenti dai devoti a Dio. Viene data la possibilità di delineare un carattere senza conoscerlo. Tutto questo grazie ad una singola parola: il nome. Innescando una reazione a catena di idee e immagini si arriva a collegare questa serie di lettere con un carattere ben preciso. Basti pensare a Fra Cristoforo, dal latino colui che porta Cristo, che rimanda alla sua scelta fatta di servire la Chiesa. Perfino Lucia, la figura femminile più importante di tutto il romanzo, ha nel nome la purezza e devozione a Dio. Infatti Lucia viene da Luce e quindi dalla Luce Divina. Rodrigo, poi, oltre a richiamarne le origini spagnole, deriva dal germanico potente e ricco di gloria. Anche lo Sfregiato, uno dei bravi, rievoca i tagli e le lotte. Lo stesso personaggio se si fosse chiamato, ad esempio, Beniamino non sarebbe stato credibile. Oppure l’Innominato, così potente che il suo nome non può essere pronunciato, porta con sé un alone di mistero e di ignoto. Nel caso di alcuni bravi come Tiradritto, Montanarolo, Tanabuso e Squinternotto Manzoni conia dei nuovi nomi unendo due parole, proprio come con Azzeccagarbugli. Dal nome dell’avvocato già si capisce che quest’uomo è certamente in grado di “tirare fuori dai pasticci” chi si rivolge a lui, magari non sempre in modo chiaro.
Questo stesso espediente per definire un personaggio grazie al suo nome era stato precedentemente utilizzato da Dante Alighieri. Nel XXI canto dell’Inferno nella Divina Commedia Dante incontra in una bolgia i Malebranche, un gruppo di diavoli. Le entità malvagie hanno nomi come Rubicante, da rabbia e quindi il rabbioso, Cagnazzo, che si riferisce al suo aspetto animalesco e Graffiacane che rimanda agli artigli della creatura. Infine quando Dante arriva in Paradiso trova come sua guida Beatrice, il cui nome deriva da beato ed è quindi un’anima pura e vicina a Dio.
Marina Picardi

4 febbraio 2011

QUESTIONI D’ONORE




“ - E gli altri frati?
- Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall'altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e...
 - M'immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote.
 - Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso.
 - Come? Come? ”
(cap. XVIII)

Così Manzoni descrive l’ira del Conte zio, causata dalla mancanza di rispetto di fra’ Cristoforo nei confronti del nipote Rodrigo. Il Conte zio, informato da Attilio dell’accaduto, decide di intervenire perché l’atteggiamento del frate danneggia la sua reputazione e quella di tutto il suo casato. Si può facilmente capire che nella società dove è ambientato il romanzo, l’onore e l’autorità dei potenti vengono prima di tutto.
Fin dall’antichità, questo principio era ben radicato nelle tradizioni e determinava i rapporti tra il popolo e le famiglie nobili. Far parte di una determinata discendenza dava diritto a ricevere rispetto dagli altri, anche se non del tutto meritato. Come nel caso di don Rodrigo, che è la classica “pecora nera” della famiglia. Egli, infatti, a causa dei suoi vizi e del poco rispetto nei confronti del prossimo, abusa del suo potere e si caccia nei guai, la cui risoluzione è compito dell’autoritario zio.

Ma siamo sicuri che oggi, nel XXIesimo secolo, l’onore abbia perso tutta la sua importanza? Certamente col passare del tempo la società si è trasformata, ma in alcune zone, in alcune circostanze, l’onore e tutto ciò che esso comporta è ancora molto sentito. Ad esempio, nella mafia e in tutte le organizzazioni criminali! I vari clan sono come grandi famiglie, che vivono in lotta tra loro, sfidando la legge e approfittando del loro potere, costruito su minacce ed intimidazioni.
Alle volte per onore si arriva a compiere gesti estremi, primo tra questi l’omicidio. In diritto si parla di delitto d’onore, pratica ancora molto diffusa nei Paesi orientali. Non è raro, infatti, sentire che un uomo uccida la propria donna ( o meglio una delle sue donne ) perché accusata di adulterio. Tutto questo solo per salvare la propria reputazione agli occhi degli amici e dei conoscenti.
L’onore è stato sempre considerato per soli uomini, e le donne sono spesso le vittime di questo orgoglio maschile. Anche Manzoni ne riporta un esempio, tramite i pensieri dell’Innominato.

“… perdonatemi... Perdonatemi? Io domandar perdono? A una donna? Io…! ...” (cap. XXI)

Detto questo, secondo voi, l’onore di famiglia è vivo nella nostra società?


Nicola Bazzan

3 febbraio 2011

Il castello dell'innominato



“Del resto , non che lassù, ma neppure nella valle, e neppure di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello.”

Il castello dell’Innominato è un esempio di locus asper e, come ogni dimora del tipico personaggio cattivo che si rispetti, mette soggezione soltanto nel descriverla.
“…era a cavaliere di una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra goigaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti.”

Anche questo castello, come quello di Don Rodrigo, rispecchia la personalità del suo proprietario. L’Innominato, infatti, è una persona riservata che non ama stare a contatto con la gente e per questo ha costruito il suo castello lontano da tutto e da tutti.

La casa non rispecchia solo la personalità ma anche i gusti di una persona. Entrando in una casa, per esempio, dai quadri affissi alle pareti si può capire chi è il pittore preferito del proprietario, i suoi gusti musicali ed anche se e cosa ama leggere, semplicemente osservando la sua libreria.
I ragazzi, poi, prestano una grande attenzione nel personalizzare la propria camera. Amano appendere alle pareti i poster dei loro attori preferiti, riempire la stanza di foto, disegni e frasi, mettendo in risalto persone, luoghi,momenti e parole che sono o che sono state più importanti per loro.
La casa può rappresentare uno status-symbol, cioè evidenziare la collocazione sociale del proprietario. Come nel passato i nobili vivevano in sontuose regge circondate da enormi parchi attorno ai quali abitava la classe sociale meno agiata, oggi, nelle metropoli in via di sviluppo (il Cairo, ad esempio), possiamo vedere lussuosissime ville confinanti con squallide baracche prive d’acqua corrente ed elettricità.
Attualmente nei paesi Occidentali questa differenza è meno marcata, anche se nella nostra società pare sia più importante apparire che essere. Infatti, anche attraverso le case, le persone vogliono offrire un’immagine precisa di se stessi, esattamente come l’Innominato che preferisce costruire una dimora che metta angoscia e paura: l’immagine che lui vuole dare di sè agli altri.

Giorgia Signoretto

31 gennaio 2011

Creduloni, brutta malattia l'influenza!

“- Ah! ecco quelli delle novità, - disse il mercante, smontando, e lasciando il cavallo in mano d'un garzone. - E poi, e poi, continuò, entrando con la compagnia, - a quest'ora le saprete forse meglio di me.- Non sappiamo nulla, davvero, - disse più d'uno, mettendosi la mano al petto.- Possibile? - disse il mercante. - Dunque ne sentirete delle belle... o delle brutte.”

A quanti di voi è successo di dare ragione a qualcuno discutendo di un qualsiasi argomento perché non eravate abbastanza informati o perché avete pensato: “se lo dice lui/lei allora va bene”?
Immagino che a tutti sia capitato almeno una volta, succede oggi, succedeva un tempo.
Dopo gli spiacevoli episodi di Milano Renzo è ricercato dalla giustizia con l’accusa di aver condotto una delle rivolte in città, così decide di fuggire a Bergamo dal cugino Bortolo. Dopo un lungo cammino Renzo decide di fermarsi in un’ osteria a Gorgonzola, paesino vicino al confine con la terra di San Marco, dove ascolta una conversazione tra un mercante di Milano e dei contadinotti del posto.
Questi, affamati di news su Milano, attendevano con ansia l'arrivo di qualcuno per essere aggiornati.
Il mercante raccontò ciò che sapeva, e parlando di Renzo lo descriveva come un mascalzone, un delinquente, capo dei rivoltosi. Tutti loro credettero ingenuamente a ciò che raccontava, senza metterlo in dubbio.
Personalmente, dopo aver letto questo capitolo dei Promessi Sposi, ho colto un preciso significato.
Sappiamo bene che Manzoni ha scritto il romanzo per sottolineare la situazione storica dei suoi tempi. Voleva rivolgersi alla gente per trasmettere un messaggio politico e pedagogico: gli italiani non dovevano farsi sottomettere dagli spagnoli.
Secondo me questo episodio vuole appunto specificare quanto la popolazione si facesse facilmente influenzare dal mercante, che funge da personificazione del potere.
Nel passato questo genere di sottomissione era causato dall’ignoranza generale, infatti lo scopo di Manzoni era proprio quello di far aprire gli occhi a tutti.
Oggi, nonostante il livello culturale medio si sia notevolmente alzato, rimane comunque una certa influenzabilità.
Solitamente chi è più preparato nell’affrontare un argomento cede meno facilmente alle opinioni altrui, quindi chi ha maggiori conoscenze non cambia idea facilmente. Al contrario le persone meno informate si lasciano influenzare per motivi che non riguardano il contenuto del discorso.
La giusta soluzione per non lasciare che le persone ci influenzino negativamente è l’aver maturato un senso critico e l'aver imparato a riflettere con la propria testa avendo solidi principi e giudizi.
Tea Posenato 2Ds

28 gennaio 2011

Renzo, attento all alcool, non è un buon amico



“- Ah! - gridò Renzo: - ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco d'un quattrino? E quel cane assassino di don...? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; ma ce n'è pochi de' galantuomini. I vecchi peggio de' giovani; e i giovani... peggio ancora de' vecchi…………Però, son contento che non si sia fatto sangue: oibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sí. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma... ne ho anche dati”
Come abbiamo visto nel 14esimo capitolo dei promessi sposi Renzo completamente ubriaco , non vuole dare all'oste le proprie generalità per la registrazione degli ospiti della locanda. Il giovane, parlando ad alta voce, inizia a fare discorsi senza senso.
L'informatore della polizia, che si spaccia per uno spadaio, riesce a far dire a Renzo il proprio nome mentre Renzo sempre più ubriaco, continua ad arringare la folla e si addormenta ubriaco. Alcune persone, come è successo al nostro Renzo, anche con pochi bicchieri di alcool, avvertono dei malesseri notevoli. L’Irlanda è soprannominato "la patria della birra" dove il ritrovo nei pub e sempre accompagnato da “Guiness", ed è diventato un comportamento abituale.
L’alcolismo giovanile è forse da considerare un problema? Il sabato sera un adulto può trovarsi davanti i un gruppo di ragazzi; secondo voi cosa pensa? Sicuramente l’impressione che egli ne ricava non è delle più positive: infatti non è difficile che tra loro vi siano ragazzi o ragazze ubriachi.
Sono tanti i motivi che portano i ragazzi a bere : per alcuni il bere alcolici è una forma di stare in compagnia con i propri amici, perché si sentono “ sfigati” perché sono gli unici di quel gruppo che non bevono. Altri invece bevono perché li piace essere ubriachi altri lo vedono come arma per sconfiggere la noia di alcune serate o per apparire forte davanti ai coetanei. C’è anche una categoria di giovani che cerca una guida in personaggi dello spettacolo. Tra questi ci sono i musicisti che, e in molti casi definiscono l'alcol positivamente, come una via d'uscita, come dice il seguente testo degli Oasis: "Vale la pena cercarsi un lavoro quando non c'è niente per cui vorrei lavorare? È una situazione folle, ma tutto quello di cui ho bisogno sono sigarette ed alcool". Credo che le persone più soggette all'alcolismo sono quelli che cercano di cancellare le proprie preoccupazioni , persone deboli e insicure che non si ritengono in grado di affrontare anche le più banali difficoltà da sole. Come ha detto jim morrrison : “la vera felicità non è dentro a un bicchiere ma la trovi solo nel cuore di chi ti ama “
ASTOU SECK 2Ds

26 gennaio 2011

OSTERIE, BUON VINO E BUGIE!

 
“.... Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d'una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, carte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto.” cap XIV

Ai tempi di Renzo le osterie erano luoghi dove si poteva mangiare, bere una bottiglia di buon vino e trovare ristoro in un caldo letto. Ma non solo: nelle osterie le persone si incontravano anche per parlare e per informarsi sugli ultimi avvenimenti; si veniva a formare in questo modo una clientela fissa dove tutti sapevano tutto di tutti e anche di più ( un po' come dal parrucchiere di fiducia!). Archetipo del cliente tipo: il contadinotto un po' ignorante, amante del buon vino e della compagnia. A volte facevano parte del gruppo anche mercanti o uomini di una classe sociale più elevata rispettati e adulati dai popolani, perché fonte di soggezione e di informazione, come un prestigioso telegiornale vivente. Già dall'epoca dei Promessi il gossip era assai gradito e all'interno delle locande le notizie viaggiavano a velocità supersonica, fino a crescere, gonfiarsi, esplodere in “balle colossali”.
Ai nostri giorni la compagnia fissa dell'osteria è una realtà meno diffusa, perché la gente è solita cambiare locale a seconda dell'occasione o della comodità. Qualche eccezione, però, c'è; ad esempio nei piccoli paesi con poca scelta di bar, oppure nei casi in cui si trovano gruppi di vecchi amici soliti a ritrovarsi alla stessa ora, nello stesso posto, un po' per abitudine, un po' perché affezionati a quel rituale quotidiano. Proprio come nel film ” Gli amici del Bar Margherita", storia di una compagnia di signori che frequenta l'omonimo locale.
Come oggi anche un tempo si usava fare “due chiacchiere davanti ad un caffè”, anche se all’epoca un sostanzioso pasto caldo era preferito a questa bevanda, e le osterie diventavano luogo di nascita di miti e leggende.
Quando si viene a sapere di un fatto accaduto lo si racconta ad un amico che sicuramente lo spiffererà aggiungendo particolari per enfatizzare la vicenda….. ad un altro…. che lo rivelerà ad un altro …..mettendoci del suo, e così via. In questo modo il protagonista del fattaccio diventa soggetto di azioni mai svolte prima che, come Renzo, da montanaro manifestante nella folla diviene pericoloso criminale. O almeno così lo credono tutti!

“- Non si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: son gente che non ha né casa né tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finché il diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano; perché, quando la pera è matura, convien che caschi. […] Renzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill'anni d'esser fuori e lontano da quell'osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva detto a sé stesso: andiamo, andiamo.”

Attenzione dunque: non sempre le parole pronunciate in osteria sono così innocue come sembrano!

Federica Bertagnin

21 gennaio 2011

Renzo in città: un pesce fuor d'acqua

 
“..e andò dietro a uno che, fatto un fascio d'asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri […] La voglia d'osservar gli avvenimenti non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come per guida..”


Chi non si sentirebbe spaesato a dover lasciare le abitudini lente e monotone del suo piccolo paese per ritrovarsi forzatamente catapultato nella caotica città? A Renzo è successo proprio questo. Abituato alla sua semplice vita a Pescarenico, sveglia alle quattro e mezzo di mattina, lavoro alla filanda, pranzo e cena (se ce n’era), si ritrova a dover lasciare la sua quotidianità per rifugiarsi a Milano nel convento del Frate Bonaventura sotto consiglio di Fra Cristoforo. 
Il nostro eroe parte a piedi dal suo paesino e si trova, una volta arrivato nella grande città, coinvolto nel bel mezzo della rivolta del pane, tumulto popolare scatenatosi a causa di un susseguirsi di cambiamenti sul prezzo di questo bene di prima necessità. Ma un contadino in città è come un pesce fuor d’acqua! Non ragiona con la propria testa, si lascia coinvolgere dagli avvenimenti emulando chi si trova di fronte. Renzo possiede poche informazioni sulla rivolta in corso, ma nonostante ciò cerca di farsi strada tra la folla e arriva ad essere uno degli uomini che trattengono i rivoltosi per permettere alla carrozza di Antonio Ferrer di passare. Renzo non è ben cosciente di quello che fa, ma si schiera dalla parte del popolo irruento trascinato nella mischia.  
Il trovarsi spaesato non è capitato solo a Renzo ne “I Promessi sposi”, ma è un tema che si ritrova in molte altre storie, favole o film. Ha origini molto antiche, per esempio, nella nota favola di Esopo, “Il topo di città e il topo di campagna”.
Scritta nel VI secolo a.C. racconta di due topolini che invidiosi l’uno della vita apparentemente agiata dell’altro, si scambiano i ruoli. Il topo di campagna si trova in città con cibo in abbondanza, ma costretto a mangiare di corsa a causa di un brutto cane che lo rincorre; l’altro topolino, invece, si trova in campagna, può mangiare in pace ma il cibo è scarso. Alla fine entrambi decidono di tornare alla loro vita. 
Da questa antica favola prende spunto il capolavoro cinematografico di Castellano e Pipolo  “Il ragazzo di campagna ”. In questo film Renato Pozzetto interpreta Artemio, un contadino che arrivato alla soglia dei quarant’anni decide di lasciare la monotonia del suo paese natio per trasferirsi a Milano, la grande città. Un po’ come un Renzo moderno parte e arriva a nella metropoli e si fa subito riconoscere grazie alla sua entrata…in trattore!
Come Tramaglino è spaesato e oserei dire un po’ tonto, si lascia coinvolgere nelle situazioni più particolari perché: “Beh, Milano è Milano!”. Non riesce a decidere cosa sia bene e cosa male poiché per lui, come per Renzo, tutto è giustificato dal trovarsi in città. Alla fine, però, rinuncia all’avventura e ritorna dalla mamma nel paese che il venerdì festeggia con alta attenzione il passaggio del treno!
Con il passare del tempo, però, la differenza tra campagna e città è piuttosto diminuita, poiché grazie ai veloci mezzi di comunicazione anche fuori dalle metropoli arrivano le notizie e la vita frenetica scandita dal susseguirsi impegni si ritrova anche nei paesi. Tutti gli esempi di ”contadino in città” portano però, alla fine, al ritorno in campagna. Forse perché ognuno si trova bene dove è abituato a stare, chi con le macchine veloci, chi con il chicchirichì del gallo come sveglia la mattina.

Sara Adami 2Ds

17 gennaio 2011

EPOCHE DIVERSE, MALCONTENTO COMUNE


                                                                     

Nel dodicesimo capitolo de “I promessi sposi” Manzoni delinea il periodo storico di una città, Milano, in rivolta. Gli animi in fermento portano l’11 novembre 1628 a una rivolta popolare, descritta dall’autore attraverso le reazioni istintive della folla, che vede il suo apice nell’assalto al forno e alla casa del vicario.
Ma quale fu la causa di tutto ciò? Immediata risposta si trova nella grave situazione di carestia che colpì per due anni Milano e nel malgoverno di politici spagnoli.  Fu questo il caso ad esempio di Ferrer che, abbassando il prezzo del pane, peggiorò irrimediabilmente la situazione di crisi. Cosi quando una commissione ebbe la  responsabilità di fissare un rincaro del prezzo del pane, il malcontento generale dilagò.
Situazioni fisse e periodiche di ogni epoca che, a seguito del malcontento del popolo, portano a repressioni più o meno violente.
Scene di tal genere si verificavano 400 anni fa e si verificano tutt’oggi. Cause: varie. Si passa dagli scontri a Genova nel 2001 in occasione della riunione dei governanti dei maggiori paesi industrializzati, alla più recente manifestazione studentesca del 14 dicembre 2010 che ha coinvolto studenti contrari alla riforma Gelmini
 Il più delle volte, in queste situazioni, un solo sasso scagliato alla cieca è presupposto di tumulti della folla contro le forze dell’ordine, centro di sfogo per la rabbia e la delusione. La mancanza di forze dell’ordine invece, porterebbe raramente il gruppo di manifestanti ad azioni di violenza che nel momento preciso agiscono liberamente, senza ragione. Infatti in una tale situazioni di malessere qualunque cosa che prima veniva vista sbagliata, se fatta da uno, porta la coscienza umana a ritornare sulla propria posizione e compiere lo stesso gesto.
“Sono un uomo come tanti. E faccio il poliziotto. Forse ho colpito gente che non lo meritava. Ma io mi sono voltato a guardare piazza del Popolo dopo averla liberata dai manifestanti. E già sapevo che qualcuno avrebbe detto... "ma la polizia perchè ha permesso tutto questo?" O anche "è successo perchè i poliziotti hanno provocato". E sentivo il numero dei poliziotti feriti che saliva. 57 feriti è statistica. 57 uomini sono 57 storie.[…] Le nostre ferite non le ostentiamo. Noi. Che non siamo diversi da "voi". Che non odiamo ma possiamo avere paura. Che non vorremmo dover colpire ma a volte dobbiamo farlo. Che mercoledì 22 saremo ancora in piazza. E sui mezzi che ci portano ore prima sui luoghi più caldi ci diremo che mancano tre giorni a Natale. E che... al ritorno... speriamo di essere tutti e di non dover pensare che c’è un collega a cui far visita in ospedale.” (Corriere della sera)
Questo è ciò che succede nella nostra realtà, ma se ci soffermassimo ad analizzare altre situazioni potremmo riconoscere che ciò che succedeva in Italia nel 1628 e ciò che succede oggi, a confronto, sembra una banalità. Un esempio? La Tunisia oggi.

Sergio Paiu